In Italia, parlare di innovazione è un po’ come parlare di fantascienza. Tutti ne riconoscono il valore, ma quando si tratta di cambiare davvero qualcosa nel proprio modo di lavorare… si alzano i muri.
“Troppo complicato.”
“Chi l’ha già fatto?”
“Meglio aspettare e vedere come va agli altri.”
È il cosiddetto effetto “no-no-no“: un riflesso tipico della mentalità imprenditoriale tradizionale, che preferisce la certezza del noto al rischio della novità.
Un atteggiamento comprensibile, ma che oggi non è più sostenibile.
La paura dell’innovazione: una questione di cultura, non di tecnologia
La vera difficoltà non sta nei nuovi strumenti, ma nel modo in cui li guardiamo.
Le tecnologie cambiano, i modelli economici evolvono, ma molti imprenditori restano fermi non per mancanza di capacità, ma perché la cultura del rischio è ancora vista come un difetto, non come una virtù.
È una barriera mentale, una sorta di prudenza collettiva che rallenta tutto: chi innova viene osservato con curiosità, ma pochi lo seguono davvero finché il risultato non è garantito.
Come dice anche Marco Montemagno, “non serve essere dei geni, serve solo avere il coraggio di iniziare”. Eppure quel coraggio sembra la risorsa più scarsa.
L’Italia, che è sempre stata una fucina di innovazione, adesso riesce solo a far scappare i giovani con le menti più brillanti.
Così si crea un divario: gli innovatori che si muovono per primi — e raccolgono i risultati — e il gregge che segue, quando ormai l’opportunità è passata.
Seguire il gregge non è più un’opzione
Il mondo non aspetta.
Chi resta fermo, oggi, non resta stabile: arretra.
Le imprese che non sperimentano, che non si adattano, finiscono per subire le scelte degli altri — dei competitor più dinamici, delle piattaforme digitali, delle catene che investono prima e meglio.
Essere innovatori, invece, significa essere padroni del proprio futuro.
Non si tratta di “fare cose strane”, ma di adottare modelli più intelligenti, che migliorano il margine, la reputazione e la sostenibilità.
È una questione di mentalità, non di budget.
Il coraggio di iniziare prima
Ogni epoca ha avuto la sua grande innovazione… e la sua ondata di scettici.
Quando fu inventata la ruota, molti pensarono fosse inutile: “tanto si può trasportare tutto a mano”.
Quando arrivarono le automobili, la gente rideva: “le carrozze con i cavalli sono più affidabili”.
Quando nacque Internet, era considerato un giocattolo per pochi tecnici.
Le carte di credito sembravano un azzardo (“chi mai pagherebbe senza contanti?”), e i pagamenti digitali una follia senza garanzie.
Oggi nessuno metterebbe in discussione queste innovazioni.
Ma tutte, senza eccezione, sono state accolte con diffidenza, ironia o paura.
Gli innovatori hanno sempre dovuto affrontare il muro del “non è per noi”.
Eppure, proprio chi ha creduto prima ha costruito il vantaggio più grande.
Innovare, dunque, non è solo un atto tecnico: è una scelta di coraggio e di visione.
È capire che il rischio più grande non è cambiare, ma restare immobili mentre il mondo cambia intorno a noi.
Dalla diffidenza alla concretezza: l’esempio di RETARI
Un esempio concreto di innovazione utile e accessibile è quello di Remunero con il progetto RETARI, che trasforma la TARI — una tassa percepita come un costo — in un motore di sviluppo locale.
Il modello è semplice: i cittadini ricevono la restituzione della TARI in un conto elettronico spendibile solo nel territorio, nei negozi e nelle attività locali.
Così il denaro torna immediatamente all’economia reale, senza costi per i Comuni e con grandi vantaggi per famiglie e imprese
Per le partite IVA e le aziende, questo significa più clienti, maggiore fidelizzazione, riduzione fiscale fino al 30% del fatturato e un impatto positivo certificabile sul piano ESG.
RETARI è la dimostrazione che innovare non è rischiare: è evolvere.
E che il vero vantaggio appartiene sempre a chi decide di muoversi prima.
È un esempio concreto di innovazione che semplifica, non complica — e che premia chi sceglie di agire prima.
E come insegna Montemagno, il momento migliore per cominciare non è quando tutti lo fanno, ma quando nessuno ci crede ancora.


